Umberto Eco e l’abate Vallet, un’avventura di libri e di idee

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Nel suo vecchio libro su come fare la tesi di laurea Umberto Eco, lo scrittore appena scomparso, ha saputo appassionare ai libri e alla ricerca umanistica ♦

Per me la storia più bella raccontata da Umberto Eco sui libri, tra le tante che ne hanno fatto la fama, è quella dell’abate Vallet. È contenuta nel librino Come si fa una tesi di laurea pubblicato da Bompiani originariamente nel 1977: per chi non lo sapesse, negli anni Ottanta ha addestrato diverse generazioni di studenti universitari a fare ricerca in campo umanistico, esemplificando nei dettagli come farla. Chi ha letto il manuale di Eco sa che faceva apparire ogni laureando come una sorta di Indiana Jones delle Lettere, e persino lo studio della metafora nei trattatisti del Seicento si trasformava sotto la sua penna in una appassionante ricerca dell’arca perduta. Magnifica avventura dell’intelletto, a suon di macchina da scrivere e schedari cartacei, in un’epoca in cui per fare una bibliografia e una tesi non esisteva ancora la scorciatoia dei copia-e-incolla.
Nel paragrafo del libro intitolato “L’umiltà scientifica” Umberto Eco raccontava come, ai tempi della sua tesi di laurea (dedicata al problema estetico in San Tommaso), fosse stato per lui decisivo l’incontro casuale, su una bancarella parigina, con un trattatello ottocentesco scritto da tale abate Vallet. Da quell’autore, del tutto sconosciuto e privo di originalità, il brillante studente di allora aveva saputo estrarre l’idea decisiva per risolvere l’impasse filosofico in cui si dibatteva la sua tesi.
L’aneddoto, tra le pagine più brillanti di Come si fa una tesi di laurea, ebbe anche un seguito. All’uscita del libro – ricorda l’autore nell’introduzione a una edizione uscita negli Strumenti Bompiani a metà degli anni Ottanta – la storia dell’abate Vallet aveva attirato l’attenzione di Beniamino Placido, altro compianto esemplare di intellettuale pop. Il quale, recensendo il libro, aveva maliziosamente ipotizzato che l’abate Vallet non fosse mai esistito e fosse il frutto del talento narratologico dell’autore. Ecco ciò che racconta in proposito Umberto Eco:

Quando tempo dopo ho incontrato Placido, gli ho detto: “Hai torto, l’abate Vallet esiste, ovvero è esistito, e io ne ho ancora il libro a casa; è più di vent’anni che non lo riapro ma mi ricordo ancora, dato che ho una buona memoria visiva, la pagina in cui avevo trovato quella idea, e il segno rosso con punto esclamativo che vi avevo fatto a margine. Vieni a casa mia e ti mostrerò questo famigerato libro di questo famigerato abate Vallet.”
Detto fatto, andiamo a casa mia, ci versiamo due whisky, io salgo su di una scaletta per raggiungere lo scaffale alto in cui da vent’anni, ricordavo, riposava il libro fatale. Lo trovo, lo spolvero, con una certa emozione lo riapro, vado alla ricerca della pagina altrettanto fatale. E la trovo, con il suo bel punto esclamativo a margine.
Mostro la pagina a Placido, e poi gli leggo il brano che mi aveva tanto aiutato. Lo leggo, lo rileggo due volte, e trasecolo. L’abate Vallet non aveva mai formulato l’idea che gli avevo attribuito, vale a dire non aveva mai posta quella connessione (che mi era parsa così brillante) tra teoria del giudizio e teoria della bellezza.
Era accaduto che leggendo Vallet (il quale parlava d’altro), e stimolato in qualche modo misterioso da quello che lui stava dicendo, a me era venuta in mente quell’idea e, immedesimato come ero nel testo che stavo sottolineando, ho attribuito l’idea a Vallet. E per più di vent’anni ero stato riconoscente al vecchio abate per qualcosa che egli non mi aveva affatto dato. La Chiave Magica me l’ero fabbricata da sola.

Di nuovo un colpo di scena, se non ideato, narrato ad arte da Umberto Eco che ne ricavava brillanti conclusioni sulla dimensione collettiva del sapere e delle idee, che “viaggiano da sole, migrano, scompaiono e riappaiono, ed accade loro come accade alle barzellette, che migliorano via via che qualcuno le racconta”.
Umberto Eco ricordava poi, come ultimo atto di questa storia, l’omaggio che volle tributare di lì a qualche anno all’oscuro ma insostituibile vecchio abate: ricorderanno infatti i lettori de Il nome della rosa che nelle prime righe del romanzo il nome di un abate Vallet figurava quale autore del manoscritto ritrovato da cui muove il racconto.
E con questo si conclude la storia dell’abate Vallet e della gloria postuma che Umberto Eco seppe rendergli. Vorremmo che tutti potessero leggerla per intero nella introduzione di Come si fa una tesi di laurea. Ma, chissà perché, nelle edizioni successive del libro ogni riferimento è scomparso. Ora che lo scrittore non potrà più raccontarla, qualcuno vorrà riproporla?

Una precisazione. Scritta per l’edizione Strumenti Bompiani (1985) di cui si parla nell’articolo, l’introduzione di Eco è stata omessa nelle molte edizioni successive, almeno fino all’edizione digitale formato kindle (2012). È stata però riproposta dall’editore, trent’anni dopo la prima apparizione, nell’edizione più recente del manuale di Eco, in libreria nei Tascabili Bompiani, dove il testo può perciò essere di nuovo gustato nella sua interezza.

(aggiornato il 13 luglio 2016)

2 commenti

  1. “Certe volte temo che chi non scopre mai niente sia colui che parla solo quando è sicuro di avere ragione. Le idee migliori vengono per caso. Per questo, se sono buone, non sono mai del tutto tue” (La bustina di Minerva di Umberto Eco, 31 marzo 1985)

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