L’insulto di Ziad Doueiri che fa sanguinare le ferite di Beirut

linsulto

Corre per l’Oscar 2018 e continua a raccogliere plausi e riconoscimenti L’Insulto di Ziad Doueiri, film che catapulta il pubblico internazionale nel cuore della polveriera libanese, dove basta davvero poco per far sanguinare vecchie ferite e alimentare pregiudizi reciproci  

A ben vedere, gran parte del consenso nato attorno al film L’insulto di Ziad Doueiri – i riconoscimenti di critica, i premi e la generale considerazione che si tratti di un film imperdibile – gira attorno a quello che è il suo tratto più clamoroso e a un suo merito indubbio: l’avere catapultato il pubblico internazionale nel cuore della polveriera che è oggi il Libano, in un modo che difficilmente si potrà dimenticare o rimuovere dopo la visione del film.

Nelle sale italiane dai primi di dicembre, il 23 gennaio il film è stato selezionato nella cinquina per l’Oscar al miglior film straniero (che sarà assegnato il prossimo 4 marzo a Los Angeles), e già poteva vantare una Coppa Volpi per il migliore attore conquistata alla 74° Mostra del Cinema di Venezia.

L’insulto prende di petto una materia incandescente e questo lo si capisce fin dai titoli di testa, dove si precisa che il film “non riflette la posizione del governo libanese”. Lo ha dimostrato poi quello scivolamento dal cinema alla cronaca, nel settembre scorso quando, di ritorno dal festival di Venezia, Ziad Doueiri subiva un fulmineo arresto a Beirut con l’accusa di “collaborazionismo con il nemico israeliano”.

Doueiri è un cineasta libanese che si è formato negli Stati Uniti, dove era assistente nientemeno che di Quentin Tarantino per, tra l’altro, Le iene, Jackie Brown e Pulp Fiction. È autore di un primo film premiato a Cannes nel 1998 (West Beirut), a cui ha fatto seguito Lila dice (2004), storia di formazione che ha per protagonista un adolescente nei sobborghi di Marsiglia. Il suo The Attack (2012), girato in Israele, è boicottato in Libano e in pressoché tutti i paesi arabi. Con L’insulto, Doueiri torna alla terra di origine. Del Libano dice che è “una democrazia, ricordiamolo, non una dittatura”, dove però “non si è mai fatto uno sforzo concreto per riconciliare le persone”. Per raccontare tutto ciò prende a spunto un episodio accadutogli personalmente: una lite banale che ha rischiato conseguenze non banali.

L’insulto all’inizio racconta proprio questo: il futile scontro tra due estranei.  Un diverbio attorno a un tubo di scolo irregolare e un improperio sfuggito di bocca a un capomastro di cantiere esasperato dagli sgarbi di un condomino affacciato al balcone. Potrebbe finire lì, ma invece ognuno ha i suoi motivi per irrigidirsi e così la lite finisce in tribunale.

Fin qui niente di eclatante, si dirà. Insomma, mica serve vivere in Libano per immedesimarsi in una situazione del genere. Ovunque nel mondo liti comuni, per strada o in una riunione di condominio, degenerano e contro ogni buon senso approdano in un’aula giudiziaria. Ma qui non siamo ovunque nel mondo, bensì a Beirut. Quel tubo di scolo “non è solo un tubo”, viene ripetuto a più riprese dai protagonisti, ed è invece l’occasione per riportare alla luce antiche ferite e pregiudizi reciproci.

I protagonisti dello scontro sono esponenti di comunità diverse che convivono con difficoltà sul medesimo territorio, con intrecci complicati e scopriamo anche incendiari. L’ingegnere palestinese Yasser (Kamel El Basha), ospitato in un campo profughi, deve piegare la testa per poter lavorare come capomastro in un cantiere. Il cristiano libanese Toni (Adel Karam), proprietario di una avviata autofficina e convinto seguace della destra di Bashir Gemayel, nasconde anch’egli ferite di un passato segnato dalla guerra. Entrambi pensano di difendere la propria dignità in tribunale, ma il processo si trasforma in un caso politico nazionale che infiamma la piazza e mette in allarme le autorità.

Se ne ricava che, a distanza di un trentennio dalla sanguinosa guerra civile che dilaniò il paese tra il 1975 e il 1990, il Libano subisce ancora oggi le velenose conseguenze di quei fatti e delle instabilità geopolitiche dell’area. Una coda lunga di tensioni politiche e sociali intricatissime, difficile da comprendere per chi non le abbia vissute direttamente, che nel film si dispiega in una Beirut lontana anni luce anche dallo stereotipo di paradiso del lusso e della vita notturna che arriva dai tour operator.

Va detto che l’approdo giudiziario della storia ha i modi un po’ stucchevoli del genere legal drama, che sposta la contesa sui due avvocati (in questo caso un padre vicino ai cristiani maroniti contro sua figlia che invece è più vicina alle ragioni dei palestinesi). La contrapposizione diventa più schematica e il film sacrifica le complessità e la forza del racconto cinematografico per correre verso l’unica possibile via di uscita alla tragedia di questo paese, la conclusione cioè che “nessuno ha il monopolio della sofferenza”.

Meglio delle arringhe e delle petulanze del dibattimento funzionano nel film le parole dette in famiglia, in cantiere, in officina. Parlano soprattutto i silenzi carichi di tensione, di cui dà gran prova Kamel El Basha non a caso premiato a Venezia come migliore attore. E quel sottotesto, abilmente insinuato nei percorsi paralleli dei protagonisti, a suggerire che Toni e Yasser, in un altro tempo e in un altro luogo, avrebbero potuto persino diventare amici.